Bliss Rampkin è un astro nascente del pattinaggio e dei concorsi di bellezza per bambini: a solo sei anni, ha già vinto numerosi premi, incoraggiata e sostenuta soprattutto dalla madre Betsey. Il padre, Bix, è orgoglioso dei successi della figlia, che un po’ mitigano la delusione per l’inconcludente carriera da ginnasta del figlio maggiore Skyler, interrottasi rapidamente a causa di un incidente che lo ha lasciato claudicante. Ma dietro i trionfi e il sorriso perfetto di Bliss (nata Edna Louise, ma è un nome troppo banale per una reginetta di bellezza!), la famiglia è disfunzionale. E la situazione degenera quando il corpicino senza vita si Bliss viene rinvenuto nella caldaia una mattina di gennaio, con inconfutabili segni di una morte violenta. E come reagirà la famiglia a questa tragedia? Attraverso gli occhi del fratello Skyler vediamo il lento dispiegarsi di un dramma che non sta tanto nell’omicidio, quanto nello stile di vita che i Rampike rappresentano.
Innanzitutto una breve nota sul titolo in italiano, che sebbene sia simile a quello originale ne distorce un po’ il significato (My sister, my love); l’aggiunta di unico rende tutto un po’ più in quietante, soprattutto se si pensa che è il fratello Skyler a descriverci la storia. Storia che peraltro è ispirata a fatti realmente accaduti, (almeno le premesse fondamentali da cui parte): la celebre (almeno negli USA) vicenda di Jonbenet Ramsey, piccola partecipante a quegli obbrobri definiti concorsi di bellezza per bambini. Molti dei dettagli del libro sono in effetti una fedele cronaca della realtà (nonostante l’autrice all’inizio del libro neghi qualsivoglia legame con fatti o persone reali): Jonbenet Ramsey viene uccisa all’età di 6 anni in circostanze mai del tutto chiarite (ancora oggi le speculazioni sono moltissime, e da poco sono usciti sia un documentario che un film sulla vicenda – e, nei due lungometraggi, i presunti colpevoli non coincidono). Era una partecipante dei concorsi di bellezza, aveva una madre, un padre e un fratello più grande (proprio come Skyler): ognuno di essi è stato accusato a varie riprese di essere il killer della bambina, così come ci furono (e ci sono) molte speculazioni su possibili assassini o pervertiti esterni alla famiglia colpevoli dell’omicidio. L’unico dato sicuro è che la bambina è stata uccisa. Il resto rimane speculazione (l’ultimo “documentario” aveva gridato a gran voce di avere prove nuove e testimoni mai sentiti fino ad ora: ne ho guardato una mezz’ora per rendermi conto che: a) le cosiddette “prove” erano frutto di grande lavoro di immaginazione più che di fatti concreti e inoppugnabili e che b) se per testimone si intende la centralinista che ha ricevuto la chiamata del 911 all’epoca stiamo freschi. Stava solo facendo il suo dovere, e non mi pare che dopo 20 anni si possa ricordare chissà che, soprattutto tenendo conto che tutte le chiamate vengono registrate, quindi qualsiasi cosa sia stata detta è possibile riascoltarla. Che testimone sarebbe???).
Il libro analizza lo sfacelo precedente e successivo a questo crimine, uno sfacelo morale più che altro, dato che la famiglia che la Oates ci descrive ha tutti i possibili difetti di una famiglia americana della media borghesia, con tutti gli stereotipi che di solito la accompagnano: madre casalinga e disperata che cerca di farsi un buon nome nella presunta aristocrazia/borghese del quartiere; padre impegnato a migliorare la propria posizione lavorativa e nel mentre ad avere una serie di amanti; figli soli e abbandonati alla domestica (chiaramente straniera, come da copione) e che sono costretti a provare il loro valore ogni giorno, in una costante spirale per migliorarsi, per raggiungere e superare i propri limiti.
Il padre rappresenta bene questo uomo nuovo, un uomo rozzo che pronuncia frasi in lingue straniere per darsi arie di superiorità, storpiandole (“Homo homin lupus” – la saggezza di mio padre – proverbio greco che significa “L’uomo è simile al lupo”).
La madre nel libro è ritratta, insieme al resto della famiglia, in una luce ben poco favorevole, se non addirittura malata. Mi ha ricordato da vicino alcune delle madri affette da Sindrome di Munchhausen per Procura: questo disturbo porta il tutore di un bambino o di una persona non indipendente a causare malattie nel bimbo o nella persona di cui si occupano per ricevere attenzione riflessa. Questa sindrome, che causa anche la morte delle inconsapevoli vittime, ha degli aspetti che mi sembra di ritrovare nella madre descritta dalla Oates: innanzitutto problemi irrisolti nella propria famiglia d’origine; una chiara propensione a vivere attraverso i propri figli, e quindi incolparli di ogni cosa che non vada per il verso giusto e assumersi il merito dei loro successi. E poi una serie infinite di pillole o medicinali per “renderli migliori” per le prove di pattinaggio, nel caso di Bliss, e per i dolori alla gamba nel caso di Skyler.
Molti complimenti dai critici derivano dallo stile, che in effetti è superbo, una miscela eclettica e ben riuscita. Ma spesso non basta. Le ultime 100 pagine erano decisamente troppe, forse alleggerire il romanzo in qualche punto sarebbe stato meglio, per renderlo più fluido e scorrevole. Più della metà del libro si legge voracemente, quasi; e poi inizia un po’ il declino, lento e a tratti noioso, con storie che inevitabilmente si allontanano dall’omicidio della piccola Bliss e dalla saga famigliare così ben delineata nelle pagine del romanzo; e si inizia a sentire un senso di pesantezza, che non viene alleggerito neppure dalla scoperta finale di Skyler. Scoperta che sembra vagamente affrettata, come a voler trovare forzatamente un colpevole per la conclusione del libro.
Un omaggio alla descrizione dei principali protagonisti: Bliss, che sebbene protagonista del dramma risulta in qualche misura defilata, la meno descritta e partecipe tra i membri della famiglia, sia in ragione della giovane età, sia perché in fondo il romanzo più che su di lei, è sulle dinamiche che le sue competizioni di pattinaggio prima, e la sua morte dopo, hanno innescato in famiglia. I genitori sono abilmente tratteggiati. Bix, padre assente, workaholic, come si dice in l’America: ossessionato dal lavoro, e dal prestigio che ne deriva; collezionista di donne e amanti. E poi Betsey, vero perno centrale del libro e delle disfunzioni famigliari: cerca di rivivere la gloria che non ha mai avuto, e che ha potuto solo gustare di passaggio in gioventù, attraverso i figli; sembra nutrire un sentimento di sincero affetto per Skyler, anche se è più l’immaginazione del piccolo a farglielo pensare più che veri e propri gesti d’amore materno. La piccola Edna Louise poi è completamente dimenticata, finché non diventa Bliss. La madre ama Bliss, non Edna Louise. Ama Bliss e tutto quello che rappresenta: per la notorietà che porta, per la possibilità di riscattarsi dalla borghesia medio-alta di cui fa parte, per i riflettori costantemente puntati su di sé, più che sulla figlia.
«“Bliss”! Questo è il tuo nuovo nome, tesoro. “Edna Louise” è stato cambiato in “Bliss”…non è meraviglioso?»
La bambina, sconcertata, sorrise a mamma. Era una buona notizia? Era una bella sorpresa? Dall’espressione di mamma, decisamente sì. «Il tuo nome è “Bliss”: ripetilo».
«“Bli-zz”?»
«“Bliss”. “Bliss Rampike”».
Che strani, i nomi! Perché un nome è proprio quello e non un altro, e perché ogni persona o cosa ha un nome? La piccola Edna Louise, ora la piccola Bliss, sorrise incerta come davanti a un regalo – poiché spesso i bambini ricevono doni da adulti raggianti che si mostrano molto buoni con te e desiderosi di essere considerati tali -, era sconcertata pur comprendendo che si trattava di un dono molto speciale, di cui bisognava essere grati.
«Allora, tesoro, quando ti chiedono come ti chiami, soprattutto alla pista di pattinaggio, risponderai “Bliss”. “B-L-I-S-S”. E’ una visione mandata da Dio. Lo capisci?». Edna Louise annuì con impeto. “Sì mamma!”.
E Bliss vuole essere amata dalla madre, da cui riceve attenzioni solo quando si tratta di gareggiare (anzi, meglio, di vincere), e la sfrutta (il termine è usato consapevolmente): ore e ore di sfiancanti esercizi dolorosi, ma praticati senza lamenti; diete bizzarre e medicine, un sacco di medicine, che sia Bliss che Skyler assumono in quantità smodata (la tossicodipendenza di Skyler incomincia proprio dall’abuso dei suoi farmaci personali). La madre ha una serie di disturbi piscologici – sfociati in parte nell’alcolismo – che sfoga sui propri figli: l’abbandono del marito è colpa della piccola Bliss, perché ha perso la gara; i suoi insuccessi personali sono causati dalle gravidanze; le sue trame infruttuose per aggraziarsi i vicini più cool sono colpa del figlio, che non ha le amicizie “giuste”.
La settimana prima, Bliss non si era qualificata per la gara del Royale Ice Capades. Chissà come era accaduto che, contrariarmene a quanto si aspettava la mamma, Gesù non aveva tenuto lontano il dolore fantasma da Bliss, e così, durante le qualificazioni, Bliss soffriva al punto che i giudici di gara non le avevano accordato il permesso di esibirsi, e avevano minacciato di inoltrare un reclamo contro mamma all’Associazione pattinaggio artistico degli Stati Uniti, per violazione di alcuni commi del Regolamento ufficiale. E così Bliss Rampike non era stata incoronata Miss Principessina del Royale Ice Capades 1996 come in molti avevano pronosticato. Quindi papà quella sera non aveva raggiunto la sua famigliola a Wilmington, e adesso era chissà dove, lontano dal 93 di Ravens Crest Drive.
In tono calmo, mamma ripeté: «Nessuno te ne fa una colpa, Bliss. Nel pattinaggio gli infortuni sono all’ordine del giorno. Le carriere più promettenti finiscono all’improvviso se non si ha fede. “Molti sono chiamati ma pochi sono gli eletti” ci ha ammonito Gesù. E “A chi non ha sarà tolto anche il poco che ha”».
Forse mamma aveva altro da aggiungere sull’argomento, ma fu distolta dal telefono che continuava a squillare nell’altra stanza. Skyler aveva gli occhi chiusi e quando li riaprì mamma non era più lì. E Bliss se ne stava tutta imbarazzata sul divano accanto a lui, rigida e immobile con le ginocchia rannicchiate al petto. Skyler le diede uno spintone… «E’ colpa tua se papà non è qui! Accidenti a te!».
E così come da viva, anche dopo morta Bliss è il tramite di Betsey per la notorietà, la fama. Una fama desiderata, agognata e accessibile, a lei, solo attraverso la luce riflessa della figlia. Finché non muore. Ma anche allora, anzi forse ancora di più una volta morta, Betsey sfrutta l’immagine e il ricordo della figlia: le sue apparizioni televisive, le sue propagande sfacciate, i suoi gesti e il “perdono” dell’ipotetico assassino, tutti sono solo un modo per ottenere la luce dei riflettori puntata su lei, e su lei soltanto. Fino al giorno della propria morte Betsey resterà un animale da palcoscenico, costruirà una vita su un’immagine pubblica falsa, ma che le si addice: madre dolente, che attraverso il lutto è riuscita a ricostruirsi una vita. Poco importa che tale vita sia finta, finta come la diagnosi di cancro per cui i suoi telespettatori ritengono sia morta.
Spietato ritratto della famiglia medio-borghese americana, e della ricerca costante e spasmodica del mito della celebrità.
Se lei ha delle competenze in merito allora ok, bollare come sciocchezze i risultati di quel documentario che lei critica, con un’indagine (ri)condotta da esperti addestrati a Quantico e che hanno un’esperienza trentennale sul campo, mi permetta di avere dei dubbi sull’attendibilità di quanto scrive. Il caso della piccola Ramsey è stato letteralmente rianalizzato pezzo per pezzo da quel team che lei sta screditando, tra le due sono più propenso nel credere a chi un cadavere lo ha visto nella sua vita, piuttosto che a chi si lancia in sciocche considerazioni senza cognizione di causa.
Saluti.
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L’articolo è vecchio, non mi ricordavo a quale documentario io mi riferissi nell’articolo, quindi me lo sono andata a riguardare. Ovviamente si tratta di mie personalissime opinioni, non vorrei screditare nessuno, certamente non dei professionisti.
Credo che la mia critica fosse più in generale rivolta allo sfruttamento di una disgrazia che ha fatto scalpore, da cui sono state tratte infinite teorie cospiratorie (la mia ‘preferita’ in assoluto ritiene che Jonbenet Ramsey in realtà non sia morta ma sia diventata, da adulta, la cantante Katy Perry).
Anche il romanzo stesso propende per una teoria – peraltro abbastanza diffusa – cioè la colpevolezza di un membro della famiglia; è credibile? Sì, ma non per questo la ritengo attendibile o sicura.
Capisco e condivido la fascinazione con questo tipo di storie: ma, a volte, i documentaristi tendono a far propendere la propria idea, la propria versione, nel loro lavoro. Magari dando più importanza ad un dettaglio piuttosto che ad un altro, o amplificando la validità di una testimonianza o di un dato fattore (per esempio le famose chiamate al 911. Sì, certo possono risultare ‘strane’, ma spesso sono fatte da persone angosciate e traumatizzate dalla situazione, quindi può risultare difficile stabilire se la ‘stranezza’ sia causata dall’emozione o da altro. O ancora, andare ad analizzare con sistemi all’avanguardia i rumori di sottofondo della chiamata, apparentemente sentendo “frasi o voci”. Ecco, questo mi ricorda moltissimo gli esperimenti del CICAP).
Inoltre, la testimonianza della centralinista del 911 non aggiunge nulla a quello che già si conoscenva; la donna si limita a fornire le proprie sensazioni).
A riprova del fatto che forse questi documentari non sono basati su solide certezze – in generale, non mi riferisco a nessun prodotto in particolare – il caso in questione non è mai stato chiuso dalla polizia.
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