Betty Smith è lo pseudonimo di Sophina Elisabeth Werner. L’autrice condivide con la protagonista del libro la nascita da genitori figli di immigrati e poveri, gli stessi anni e lo stesso luogo in cui ha trascorso l’infanzia: Brooklyn. Siamo nel 1912 quando la storia inizia, e la protagonista, Francie Nolan, è una bambina che vive sotto la soglia di povertà nella zona degli immigrati. Brooklyn è ben lontana dall’essere un rinomato quartiere chic di New York; è un luogo di povertà estrema e fame cronica. Francie ci racconta la sua infanzia, e la sua famiglia. A partire dai genitori, Katie, la madre, Johnny, il padre, Neeley, il fratello Annie Laurie, la sorellina. Ma anche la famiglia allargata, con le sorelle della madre, con i loro mariti e la loro vita e i fratelli (deceduti in giovane età) del padre, i nonni materni, col nonno rabbioso e violento e la nonna piena di buon senso; e la nonna paterna, che non ha mai approvato il matrimonio del figlio.
La figlia Francie aveva ereditato tutto dai Rommely e dai Nolan. Aveva le debolezze violente e la passione per il bello dei disgraiati Nolan. Era un mosaico in cui si ritrovavano le qualità di nonna Rommely: il misticismo, l’abilità di raccontare storie, la fiducia completa in ogni cosa e la pietà per i deboli. Aveva anche ereditato la volontà dura e crudele di nonno Rommely. Aveva un po’ del talento di zia Evy per imitare le persone e un po’ della possessività di Ruthie; da zia Sissy aveva preso l’amore per la vita e per i bambini, dal padre Johnny il sentimentalismo, ma non il bell’aspetto. Dalla madre aveva ereditato i modi affettuosi, ma soltanto la metà dell’acciaio invisibile di cui era fatta Katie. Era un miscuglio di tutte queste cose insieme, buone e cattive.
Ma Francie era anche qualcos’altro. Era i libri che leggeva in biblioteca, il fiore nel vaso scuro, l’albero che germogliava irresistibilmente nel cortile, le discussioni violente che aveva con il fratello, che pure amava teneramente. Era il dolore segreto e disperato di Katie, ed era anche la vergogna di suo padre che tornava a casa ubriaco.
Francie era un miscuglio di tutte queste cose e di qualcos’altro ancora che non veniva dai Rommely o dai Nolan, ma dalla lettura, dal suo spirito di osservazione e dalla vita di ogni giorno. Era qualcosa che era in lei e in lei soltanto, qualcosa di diverso da qualunque altro membro delle due famiglie. Era ciò che Dio o il Suo equivalente pone in ogni anima cui dà la vita, qualcosa di particolare che fa sì che non vi siano due impronte digitali uguali al mondo.
E’ una storia di riscatto, e, almeno in parte, del perseguimento del sogno americano: vi sono alcune frecciatine nel libro, in cui viene ricordato costantemente come il duro lavoro e l’istruzione ripagheranno ogni fatica, e porteranno ad un futuro migliore. In particolare per la famiglia di Francie, che vivacchia di espedienti, con poco cibo e pochi mezzi, facendo sforzi e fatiche, conquistandosi con la fatica ogni vittoria; anche il semplice andare a scuola per Francie e il fratello Neeley è un traguardo e non un inizio, perché i nonni non hanno mai studiato e non sanno neanche leggere. Il padre Johnny, amatissimo dalla figlia, è un alcolista che muore giovane a causa dei suoi eccessi (anche se la malattia che lo stronca è la polmonite, l’alcool ha avuto un impatto devastante sulla sua salute). Katie è stata la roccia della famiglia, e lo rimane anche dopo la morte di Johnny. E Francie prende molto dal carattere della madre, uguale a lei per caparbietà e grinta, capace di andare avanti e sopportare ogni difficoltà pur di avere un futuro di migliore, per sé e per i propri figli. Neeley invece, diminutivo di Cornelius, è troppo simile al padre, troppo protetto dall’amore e dalla preferenza accordatagli da Katie per poter diventare forte e avere aspirazioni che vadano oltre la mera sopravvivenza.
Katie aveva un feroce desiderio di sopravvivere che faceva di lei una lottatrice. Johnny invece non aveva che un vago desiderio di immortalità, cosa che faceva di lui un inutile sognatore. Questa era la grande differenza fra quei due esseri che si amavano tanto.
In queste righe c’è tutto il disprezzo, anzi meglio, la pietà per chi non sa lottare. Solo chi sa cosa vuole e la insegue pur con enormi sacrifici sarà capace di migliorarsi; tutti gli altri, i sognatori sono destinati a fallire. Questo è l’american dream.
In ultimo, l’albero del titolo, che sopravvive ad ogni cambiamento che Brooklyn incontra nel corso degli anni, e ne esce sempre rafforzato, è chiara metafora della protagonista, e della sua tenacia. In America direbbero she’s made of teflon: resistente, impossibile da distruggere.
E’ un libro scorrevole, e riporta il lettore ad anni duri, specie tra i migranti. E’ un libro-ricordo (ma non un’autobiografia, seppure molti elementi siano ripresi dalla vita della scrittrice), come se l’autrice avesse voluto sollevare, solo di un qualche centimetro, la pesante cortina che avviluppa la vita dei figli dei migranti e dei migranti dell’America di inizio secolo. Sono storie spesso rimaste nell’oscurità dei vicoli dove hanno vissuto, tra la sporcizia e un futuro inesistente, dove ogni giorno è una lotta per ottenere un miglioramento della propria situazione.