Buio di Patrick Bard

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Maëlle è una ragazza come tante: 16 anni, poca voglia di studiare, il fidanzatino e le amiche, la passione per il trucco. Fino a quando incontra su internet dei gruppi che reclutano i ragazzi a combattere nelle file del terrorismo siriano: in pochi mesi decide di convertirsi all’Islam e radicalizzarsi. Con il nuovo nome di Ayat parte per la Siria, come foreign fighter. Là, dopo che le viene comunicata la morte in un attentato di un marito che non ha mai visto, viene data in sposa a Redouan. Anche Redouan è un foreign fighter, anche lui è giovanissimo e con molte idee di uguaglianza e giustizia in testa. Quando però queste idee si scontrano con la realtà, e Maëlle resta incinta, decidono di tornare in Francia, dove il loro bambino può avere un futuro. Scappare è pericoloso: i fuggitivi, se acciuffati, vengono decapitati. Maëlle riesce a fuggire, lasciandosi Redouane alle spalle. Ma il ritorno è difficile: la madre, Cèline, ha paura di quello che la figlia ha fatto e si interroga sulle sue colpe, Maëlle ha perso ogni cosa ed è indagata per terrorismo…

Sorprendentemente il romanzo mi è piaciuto. E sono sopresa perché non ero pienamente convinta della scelta, mi era semplicemente capitato di leggere su questa locandina del Mare di libri, il festival della letteratura per ragazzi di Rimini.

DSCN3676DSCN3677 (2)Quando mi è arrivato il romanzo, la brevità e la collana di cui fa parte (giralangolo) mi hanno fatto sospettare che avessi a che fare con un libretto per bambini. O per ragazzi. E sì, sicuramente la storia è pensata per un target giovane, però può essere letto anche da bacucche (come me). E, soprattutto, il volume si propone come un vero e proprio manifesto contro la radicalizzazione. Io dei foreign fighters so pochissimo, e sinceramente non credevo esistessero ragazze che – volontariamente – prendessero e decidessero di andare in Siria per unirsi all’Isis. Ma, senza andare a pensare alla questione ideologica e ai massacri, anche solo il pensiero di andare in un posto di guerra mi sembra al limite dell’assurdo. Ma questa, lo so, è la mentalità da vecchiarda che parla.

Ma veniamo alla storia: Maëlle è una ragazza di 16 anni, appena tornata dalla Siria dove si era unita ai gruppi terroristici come foreign fighter. O meglio, essendo donna, per diventare moglie di un soldato e dargli molti figli. L’immolazione e il sacrificio sono le parole chiave della vita delle donne che si uniscono ai combattenti: donne che devono diventare mogli di qualcuno, devono procreare. Il sogno di un mondo più giusto, di un ideale di amore e pace, attrae Maëlle e altre persone come lei, che decidono prima di convertirsi e diventare via via più radicali nelle loro idee, fino a raggiungere l’estremismo. È un lavaggio del cervello che riesce a convincere molti ragazzi, che partono speranzosi. Quando Maëlle arriva alla meta, si innamora di quello che sarà suo marito, Redouane, un ragazzo belga partito con tanti sogni e poca chiarezza. Ma, già dai primi momenti, la realtà sarà ben diversa dal sogno prospettato online dai reclutatori: povertà, miseria, mancanza di cibo e acqua, bombe. Tornare risulta impossibile per i ragazzi come Maëlle: a casa sarebbero trattati da terroristi e rinchiusi in prigione. Confinati tra due fuochi, la scelta tra andare e restare è questione di sopravvivenza, come scopre Maëlle. Incinta di Redouane, ha solo un obiettivo: far vivere il suo piccolo. Anche se questo comporta la fuga e, per chi fallisce, la decapitazione.

Un romanzo corale, che si incentra su Maëlle e sulle persone che la circondano e che, in prima persona, narrano la propria storia, la propria versione degli eventi. Redouane, quello che diventerà il marito di Maëlle, e che tenta la fuga con lei, che rimanere indietro; Cèline, la madre di Maëlle, che si domanda come e cosa sia successo alla figlia che ora si vuol far chiamare Ayat; Maÿlis, che prende il nome di Amina e che ha una storia simile a quella di Maëlle: stessa età, stessa città, stessi ideali; Hugo, il primo fidanzatino di Maëlle; Jeanne, la sorellina di Maëlle; Aïcha, la psicologia del centro di deradicalizzazione che segue Ayat una volta tornata a casa. Tutti raccontano la loro parte della storia, quello che vedono e pensano, quello che percepiscono. Tutti sono accomunati da una profonda confusione, da un senso di vuoto che li coglie: per alcuni tra i più giovani la risposta è la conversione e la lotta armata, per Cèline l’incapacità di comprendere i mutamenti della figlia e la sua nuova vita. Aïcha invece ci mostra il lato umano, più vulnerabile dei ragazzi e dei motivi della loro conversione e della scelta estrema di andare a combattere. Ma, soprattutto, ci mostra i motivi del ritorno:

Immagino sia così per tutti i fanatismi, ma anche per un discreto numero di movimenti politici estremisti che hanno tentato di mettere in pratica le proprie teorie reclutando individui allo sbando per poi spargere fiumi di sangue. Nazisti, stalinisti, Khmer rossi, gli esempi nel corso del Novecento purtroppo non mancano, e spesso la religione non c’entra niente. Per fortuna c’è sempre un granello di sabbia o una torta di mele che si incastra nell’ingranaggio. C’è sempre qualcuno che un mattino si sveglio e si chiede: “Ma cosa ci faccio qui?”. Qualcuno come Maëlle.

Il punto finale del romanzo, la morale di Patrick Bard è: non bisogna punire chi torna. Chi ritorna volontariamente, secondo il racconto dell’autore, lo fa perché ha capito di essersi sbagliato, lo fa con cognizione di causa, e proprio il rischio di lunghe pene detentive può impedire a molti di tornare nel proprio Paese, condannandosi a morte certa: i foreign fighters infatti sono usati per missioni suicide.

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