Grazie al coronavirus devo dire che ho tutto il tempo che voglio per leggere. Ne consegue che, in questi giorni, sto leggendo voracemente, con una media di un libro al giorno (senza contare le recensioni già programmate in anticipo sul blog). Purtroppo questo significa che non ho il tempo la voglia di scrivere una recensione per ciascun romanzo. Significherebbe spendere la mattinata a scrivere di ciò che ho letto il giorno prima (zero sbatti).
Le immagini le ho prese dai siti delle rispettive case editrici, perché sto leggendo tutto in formato elettronico e il mio e-reader è basico e senza colori (e rimasto finora praticamente inutilizzato).
Come ormai ripeto all’infinito, sto puntando a romanzi tutto sommato leggeri, che permettano di staccare la spina. Una decina di anni fa avevo due grandi fisse, che si sono succedute per mesi: i romanzi storici e i thriller. Ultimamente avevo cercato di evitare accuratamente entrambi i generi, perché tendenzialmente sono ripetitivi e banali.
Ripetitivi perché, soprattutto nei thriller, le soluzioni e lo svolgimento seguono schemi abbastanza fissi, a volte quasi copia-incollati gli uni agli altri. Non è un genere che può riservare molte sorprese.
Banali perché, soprattutto nei cosiddetti romanzi storici, si tende a concentrarsi su improbabili storie d’amore più che su dettagli marginali come, per esempio, la Storia. Sui romanzi storici e il totale anacronismo che ripropongono in ogni salsa potrei soffermarmi per ore: riassumendo si può dire che quelli che – al momento – consideriamo “romanzi storici”, si dovrebbero più correttamente definire “romanzi pseudo-storici”, dal momento che la Storia non è che una cornice, spesso assai labile e maltrattata, della trama. E in più la maggioranza della narrativa storica è diventata una sorta di “nicchia” dei romanzi d’amore. Cioè non esistono molti romanzi storici dove non ci sia al centro della trama una love story (e lo dice una che si è letta i millemila libri di Philippa Gregory sulla Guerra delle Due Rose). Solo che questi amori assolutamente improbabili, descritti con sentimenti e morale contemporaneee creano una forte dose di irrealismo e condannano i romanzi ad essere letti con una costante sensazione di incredulità.
Detto questo, i primi due romanzi letti appartengono appunto a questi generi: La donna della cabina numero 10 di Ruth Ware, editore Corbaccio, è un thriller tutto sommato carino e veloce. Certo, il fatto che a tre quarti venga rivelato il mistero fa perdere un po’ dell’inghippo. L’ambientazione chiusa, e tra l’altro originale, non mi dispiace. Si vede che, per il mistero, per i personaggi e per la scelta dei luoghi, Agatha Christie è stata una fonte di ispirazione notevole (potrei riportare soprattutto Sono un’assassina? o anche La sagra del delitto).
Una giornalista di viaggi si ritrova, per lavoro, a bordo di una lussuosa nave da crociera piccola ma estremamente esclusiva. Nella cabina di fianco a lei scorge, per un momento, una ragazza giovane che sembra stonare con l’ambiente raffinato che la circonda e si distingue dagli ospiti ricercati. Ma questa ragazza, misteriosamente, sembra scomparire nel nulla dopo una notte in cui la nostra protagonista crede di aver visto un corpo cadere in acqua, e del sangue sporcare la balaustra. Ma il giorno dopo non c’è traccia di nulla, né del sangue, né, soprattutto, della donna della cabina 10, che secondo i resoconti dello staff, non è mai salita sulla nave. Esiste? È mai stata a bordo? Oppure Lauren, la protagonista, ha mischiato troppi alcolici con le pillole antidepressive prescritte?
Thriller carino e senza pretese. C’è anche un tentativo, nell’ultimissima pagina, di mischiare le carte e lasciare un mistero aperto, insoluto, anche se questa soluzione sembra più una scelta di comodo che altro (cioè ho i miei dubbi che l’autrice sarebbe stata in grado di spiegare logicamente il twist). Ovviamente bisogna partire dal presupposto che si tratta di una lettura molto leggera, che però è stata in grado di appassionarmi fino alla fine; non avevo grandi pretese, e l’intrattenimento che cercavo l’ho trovato. Tra i lati negativi invece troviamo: una protagonista inaffidabile resa famosa in tempi recenti da La ragazza del treno, e quindi poco originale (e in alcuni passi francamente fastidiosa); la scelta di dedicare poco spazio ai personaggi secondari (alcuni sono citati in più scene ma non alcun ruolo utile nella trama, né nei misteri da svelare); la poca credibilità dell’intera vicenda (anche se, onestamente, mi è piaciuta l’idea di una nave da crociera mini ma super lussuosa, una specie di bomboniera per ricchissimi); l’ampio spazio dedicato all’ultimo quarto del romanzo: avrei preferito ci si concentrasse sulla prima parte un po’ più a lungo, per scoprire i segreti di ciascun ospite, e i loro scheletri nell’armadio. Però tutto sommato è una lettura piacevole e scorrevole (aggettivo che ricorrerò con frequenza in tutto l’articolo); non ci sono personaggi oltremodo fastidiosi (la protagonista ogni tanto deraglia, ma non tanto da volerla prendere a mazzate).
Secondo romanzo letto, che appartiene al genere storico, è La prigioniera del silenzio di Valeria Montaldi, edito da Rizzoli. Di questa autrice una decina di anni fa avevo letto altri libri storici che mi erano piaciuta molto.
Nella Venezia di inizio 1300, il destino di due donne di classe sociale diversissima è accomunato da una gravidanza indesiderata, che le pone di fronte a scelte difficili. Da un lato l’aristocratica Giulia Bondimier, innamorata del figlio del mercante di stoffe, un ragazzo ebreo, che spera di sposare. Speranza che si infrange rapidamente quando il tizio in questione mette ben in chiaro che manco per la cippa vuole sposarsi e, soprattutto, quando la zia scopre che la nipote non solo è gravida fuori dal matrimonio, ma pure di un uomo di fede diversa, che non fa parte dell’aristocrazia. Giulia è costretta a fuggire da Venezia, riparandosi nella campagna, dove dà luce a due gemelli, un maschio e una femmina, che prontamente vengono dati in adozione. Nicoleta invece è di umili origini, e una sera viene stuprata da un furfante. Accortasi poco dopo di essere incinta, è costretta ad abbandonare il figlio per potersi rifare una vita, lontana da Venezia. Giulia diventerà una badessa, a Venezia, almeno finché la peste non la costringe a rischiare la vita pur di salvare i propri figli…
La storia parte molto bene, con una certa dose di realismo: due donne costrette dalle convenzioni dell’epoca ad abbassare la testa e cedere i propri figli per “salvare la reputazione”. Il romanzo è diviso in due tronconi storici, separati tra loro da vent’anni: nella prima parte Giulia e Nicoleta sono ancora ragazze; nella seconda sono diventate donne intraprendenti e che godono di una certa libertà, considerando il periodo storico in cui si muovono. Come detto la prima parte funziona, è dura, cruda, mostra, pur con alcune attenuanti, il triste destino delle “ragazze madri” dell’epoca. La seconda parte invece diventa soft, con genitori che si rincontrano e figli che si riabbracciano, un po’ troppo pucciosa e, soprattutto, poco credibile. La fine mi ha ricordato i romanzi di Ken Follett, perché segue lo stesso principio: i cattivi muoiono tutti mentre i buoni si salvano e vivono felici e contenti. Peccato. Ah, quasi dimenticavo: la seconda parte è ambientata negli anni dello sfociare dell’epidemia di peste a Venezia e in Europa, quindi vengono descritte alcune ordinanze come quella di stare a casa, oppure la scelta di molti di scappare dalla città per rifugiarsi altrove (esattamente come due mesi fa fecero molti lombardi per schivare la quarantena).
Cambiando completamente genere, ecco due commedie edite Einaudi: Mia madre e altre catastrofi di Francesco Abate e L’audace colpo dei quattro di Rete Maria che sfuggirono alle Miserabili Monache di Marco Marsullo.
Per il libro di Abate non ho molto da dire: è una raccolta, molto breve, delle “perle” della propria madre. Tratto da una serie di post su facebook, i brevissimi dialoghi sono divisi per argomento (anche se si cerca di rispettare una certa cronologia); a me non ha convinto appieno, forse è un contenuto più adatto ad un social, dove la brevità è un fattore vincente: traslato in versione cartacea non riesce a mantenere la stessa verve. L’Einaudi ha corredato l’uscita del libro con una serie di brevi sketch comici interpretati da Piera degli Espositi (https://youtu.be/pi9yv_1OzUM).
Il libro di Marsullo, dal titolo infinito, riprende uno dei punti fermi della comicità: cioè quattro vecchietti che organizzano un colpo. Mi ha ricordato La banda degli invisibili di Bartolomei o anche, più semplicemente, i quattro vecchini del BarLume, che aiutano (o più spesso intralciano) le indagini del barrista Massimo.
Quattro vecchietti guidati da Fernando Agile che vivono nella casa di riposo Villa Betulla gestita dalle Miserabili Monache decidono, durante una gita a Roma, di rapire il presentatore del rosario serale di un noto programma tv. I quattro hanno dei nemici abili e astuti, come Capitan Findus, rivale di Agile nella casa di riposo, ma anche dei formidabili – e insperati – alleati, come Montepulciano, un senzatetto fulminato che parla ad un telefono immaginario e che è pieno di risorse. Ill piano non va proprio come previsto, anche perché Agile ha un motivo personale per andare nella capitale: a Roma vuole incontrare di nuovo Flaminia, la ragazza di cui era innamorato quando aveva vent’anni e che, improvvisamente, l’aveva mollato senza spiegazioni.
La prima parte, raccontata da Agile come la maggior parte del libro, funziona a meraviglia. Verso metà si smarrisce un po’, soprattutto quando si perde del tempo raccontando la storia di una festa da 4 punti di vista differenti, rendendo così narratore ciascun vecchietto (racconti che ho trovato superflui e devianti dalla voce unica degli altri capitoli). La storia è volutamente surreale, e riesce a far ridere di cuore in più punti. [Piccola nota: si vede che è stata scritta da un autore giovane perché il protagonista, Agile, ha solo 74 anni ed è già trattato come un anziano irrecuperabile]. Nel complesso è un romanzo carino, ma anche dimenticabile. Regala quelle due orette di serenità e relax che promettono trama e titolo, e credo che sia proprio questo lo spirito con cui è stato scritto il volume, quindi Mission accomplished.
Ultimo titolo, Le quattro casalinghe di Tokyo, di Natsuo Kirino, edito Neri Pozza. Questo volume lo avevo adocchiato già qualche mese fa, ma la lettura è sempre stata rimandata per un motivo o per l’altro. La quarantena accantona tutti i motivi, ed eccoci qui.
Quattro donne che lavorano nella stessa fabbrica con turni notturni si ritrovano invischiate in un omicidio, più o meno volontariamente. Ed ecco che ognuna di loro vede emergere aspetti del proprio carattere che non conosceva o che prima cercava di nascondere. Masuko, fredda e determinata, non si scompone davanti a nulla ed è la mente del gruppo: logica, astuta, decisa e senza esitazioni si occupa degli aspetti pratici dell’omicidio, come sbarazzarsi del cadavere. Ma anche lei, che sembra sempre venire in aiuto delle altre, ha un lato oscuro. Yoshie invece è una donna di mezz’età, che da anni si occupa dell’anziana suocera allettata, e combatte contro la povertà. Ha bisogno di soldi, e una disperata voglia di riprendersi in mano la vita. Yaoyoi è una sposa e una madre ventinovenne, ma già oppressa da un marito violento e assente, che al gioco ha perso i risparmi di entrambi. Kuniko invece è giovane ma vive al di sopra delle proprie possibilità, concedendosi lussi che non può pagare; si trova indebitata fino al collo, con usurai che rivogliono il denaro e non hanno scrupoli. Il denaro, un movente che spinge molte di loro a sfidare la propria zona di sicurezza e gettarsi nella difficile arte di celare un cadavere e comportarsi “normalmente”. Accanto a loro si muovono personaggi secondari, o almeno che appaiono secondari nella prima metà del romanzo, ma che arrivano a rubare la scena alle protagoniste, addirittura soppiantandole.
Inizio grandioso, tutta la prima metà scorre che è un piacere, con protagoniste riuscite – per quanto un po’ stereotipate – e con una storia che funziona. Il finale invece è una tragedia, e non nel senso che è drammatico. Sembra stato aggiunto o attaccato a caso da altri, in un raffazzonato tentativo di…boh. Non mi è chiaro il perché sia stato tutto portato in una direzione imprevedibile, sì, ma anche assolutamente fuori luogo, e di gran lunga peggiore dell’intero libro. Purtroppo le ultime cento/duecento pagine hanno affondato il romanzo, e anche la graduale evoluzione delle protagoniste. Anzi, ha proprio cancellato la coralità del romanzo, escludendo completamente 3 delle protagoniste e concentrandosi – inspiegabilmente, a mio parere – su una sola. Scelta poco saggia, dato che era proprio il punto di vista delle diverse donne a intrigare il lettore. Ah, come detto da molti lettori, ovviamente le donne protagoniste non sono casalinghe, in quanto colleghe di lavoro. Ma sono dettagli…
Ho letto anche un paio di libri sulle sorelle Mitford, di cui però voglio parlare in un post dedicato (non so ancora quando), perché mi hanno intrippata alla grande. Ho anche letto dei racconti brevi, a cui vorrei dedicare un articolo speciale nelle prossime settimane.
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