Noi di Evgenij Zamjatin

Breve premessa: questa recensione l’ho scritta a giugno dell’anno scorso, ma è rimasta dimenticata sul computer per mesi. Controllando casualmente mi sono accorta di non averla pubblicata (orrore!). Rimedio adesso, perché questo romanzo è sconosciuto ai più, ma è un gradino fondante del genere distopico.

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Nel futuro, 300 anni dopo la Guerra dei Duecento anni, si è sviluppata la Società: un luogo formato da pareti trasparenti e delimitato da un Muro verde. Al dì là del muro nessuno sa cosa ci sia, certo manca la vita perfetta che si è sviluppata al di qua del muro. D-530 è un ingegnere che sta costruendo l’Integrale, una navicella spaziale per colonizzare nuovi pianeti e diffondere il credo del Benefattore, leader della società. La società è perfetta: organizzata secondo rigidi orari e schemi di lavoro che ogni persona – anzi ogni cittadino – deve seguire. Ogni momento è controllato, la privacy non esiste (tutti abitano in cubicoli trasparenti), le attività extra-lavorative devono comunque avere un fine e un ordine (non si può camminare a zonzo, anche la camminata segue un rigido percorso). Durante una visita a una casa-museo dei secoli passati, una casa fatta ancora di mura, D-530 incontra I-330, una ragazza che destabilizza le sue convinzioni sulla società in cui vive e su cosa si trovi al di là del Muro. D-530 è combattuto tra il crescente sentimento che prova per I-330 e la forza delle convinzioni della società in cui è immerso.

Domani assisterò a uno spettacolo che ogni anno si ripete uguale, ma ogni volta emoziona in modo nuovo: si leva il possente calice della concordia, si alzano braccia devote. Domani è il giorno delle elezioni annuali del Benefattore, Domani affideremo nuovamente al Benefattore le chiavi della incrollabile fortezza della nostra felicità. Va da sé che sono diverse dalle elezioni caotiche e disorganizzate che si svolgevano presso gli antichi, quando – ridicolo a dirsi – era addirittura sconosciuto in anticipo il risultato stesso delle urne. Costruire uno stato in base a casualità assolutamente non calcolabili, alla cieca: cosa può esserci di meno sensato? E invece, a quanto pare, ci sono voluti secoli per capirlo. Non è forse superfluo dire che, presso di noi, in questa e in tutte le altre circostanze, non c’è spazio per alcuna casualità, che imprevisti non ce ne possono essere? Le elezioni stesse, del resto, hanno un significato più che altro simbolico: mirano a ricordare che siamo un unico, possente organismo, fatto di milioni di cellule, che noi – per usare le parole del Vangelo degli antichi – siamo una Chiesa una. Giacché la storia dello Stato Unico non conosce casi in cui, durante questo solenne giorno, anche una sola voce abbia osato incrinare il maestoso unisono. Si dice che gli antichi svolgessero le elezioni segretamente, nascondendosi come ladri; alcuni nostri storici asseriscono perfino che gli antichi si presentassero alle ricorrenze elettorali accuratamente camuffati (mi immagino questo spettacolo inverosimilmente tetro: notte, una piazza, sagome in mantelli scuri che si muovo furtive rasente ai muri; il vento che piega la fiamma purpurea delle fiaccole…) Per quale motivo fosse necessaria tutta questa segretezza non è stato ancora definitivamente appurato; la cosa più probabile è che le elezioni fossero legate a qualche rito mistico, superstizioso, forse persino criminale. Noi non abbiamo nulla da nascondere, né di cui vergognarci: celebriamo le elezioni apertamente, onestamente, alla luce del giorno. Io vedo tutti votare per il Benefattore; tutti mi vedono votare per il Benefattore; e non può essere diversamente, poiché ‘tutti’ e ‘io’ sono un unico ‘NOI’.

È da più di due settimane che tento di scrivere questa recensione: inizio, scrivo qualche riga, insoddisfatta le cancello, e poi mi ritrovo con una pagina Word immacolata. Mi succede spesso con i romanzi che ho trovato belli, no anzi, non belli, importanti, quei romanzi che ti segnano. Quelli che sai ti ricorderai, magari non a memoria, ma ti ricorderai quei dettagli per anni: mi è accaduto con 1984 di Orwell e la scena dei topi, con Il nuovo mondo di Huxley e la visita agli indigeni, con Anna Karenina e quell’indimenticabile momento in cui si sta buttando sotto il treno e una parte di lei ci ripensa. Quelli citati sono considerati indiscussamente capolavori della letteratura. Noi resta un romanzo sconosciuto. Immeritatamente sconosciuto, a mio parere. Noi è la versione antecedente di 1984: scritto nel 1919-1920 come forma di condanna della Rivoluzione d’ottobre e per anni censurato in patria, è uno dei capolavori della distopia. Eppure è difficile da reperire e se ne parla poco. Peccato, perché leggendolo vi ho trovato mole similitudini con 1984, ed è scritto con maestria. Nelle note a fine libro il traduttore italiano, Alessandro Niero (che, per il suo lavoro, ha meritato anche il nome in copertina) spiega la complessità di tradurre un’opera di questo calibro: così come in 1984 Orwell giocava con la sintassi e i neologismi, lo stesso principio di una scrittura fine alla storia spinge Zamjatin ad essere conciso, stringato, usando il minimo di parole strettamente necessarie. Con l’ausilio di una lingua, il russo, che permette, come dice Nievo «di omettere il verbo essere al tempo presente e, in generale, di ‘saltare’ verbi la cui semantica possa essere intuita valorizzando al massimo l’impiego dei casi». Immaginate il ciclopico lavoro di traduzione che un testo del genere può richiedere: l’italiano è una lingua distensiva, le cui frasi, per quanto brevi, devono essere strutturate in una certa forma che necessariamente le allunga. Quindi, chapeau al traduttore, che è riuscito a trasmettere la sensazione minimista dell’uso delle parole. Le parole infatti , così come la storia, hanno un fine pratico e quindi devono essere misurate sapientemente: uniforme si abbrevia in unif e i nomi dei personaggi diventano brevi identificativi alfa-numerici. Anche perché nella società immaginata da Zamjatin, l’individuo ha perso la sua funzione singola, ed è considerato solo come parte di un tutto, come un noi complessivo. Abolita l’individualità, tutti diventano organismi di un sistema più complesso, di cui non sono che granelli di un ingranaggio. La società è guidata dal Benefattore, i nemici del Benefattore sono nemici della società e del bene comune.

In questo futuro dove ogni attività è rigidamente codificata e ogni minuto della giornata scandito da impegni per la collettività, si muove D-503, uno degli ingegneri adibiti alla costruzione di una navicella spaziale, l’Integrale. Nel suo diario D-503 racconta alcuni momenti della sua vita, quelli che seguono l’incontro con la misteriosa I-330, che lo scuote e semina il dubbio sull’effettiva bontà del sistema in cui D-503 vive. Ma un’intera vita di mantra e stretta disciplina e l’affetto che prova per la ragazza, porta il protagonista a una scelta dilaniata tra la fedeltà alla società in cui ha sempre creduto, e un sentimento nuovo. E così, in poche righe, sono riuscita a presentare un capolavoro della distopia come uno Young Adult qualunque. Ci vuole impegno per banalizzare così un’opera. La storia però mostra evidenti somiglianze con 1984 (ok, ora smetto di citarlo), ma lo stile fa tanto: uno stile scarno, essenziale, incredibilmente efficace e talvolta volutamente ostico.

Il tema profetico del testo è quasi allarmante: finito di scrivere nel 1920, Zamjatin riesce a delineare con inquietante precisione le dittature che di lì a poco avrebbero squarciato l’Europa e scatenato la seconda guerra mondiale.
Dopo aver letto Noi è inevitabile pensare alle influenze che questo romanzo ha avuto sul genere distopico in generale, e su alcuni capolavori in particolare, per tematica e leitmotiv che ripercorrono il testo.
L’ho pensato e lo ribadisco: un capolavoro.

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